Tre fantasmi si affollano nel secondo giorno di Primavera dei Teatri. (Forse più di tre). Quello di un paese che appare svuotato nella sua forma stessa arroccata su un colle difficile da vivere oggi, se non come paradiso turistico nel mondo delle comunicazioni veloci. Quello di una scuola che sembra mettere in scena gli scontri, gli incubi, di famiglie disastrate, il vuoto e la rabbia di chi – a Sud – si sente – è – perennemente disagiato. Quello di una sinfonia che evoca metropoli dove gli esseri umani, i più fragili, i bambini, sono ridotti a cani: bisogna trovare un branco, o morire.

Passeggiaste mattutine per Morano Calabro, evadendo dagli impegni del festival. Il teatro, in fondo, non è una grande evasione? Una favola? Strade vuote, gradini, muri a pietra e malta. Chiese chiuse. Il nome di quel monticello a forma di triangolo, di cuspide, davanti a Serra Dolcedorme (magnifico nome del silenzio e del canto di qualche uccello, in quello che appare, oggi, fine maggio, un mondo separato): è Monte Sant’Angelo, dedicato, immagino, a San Michele, il guerriero, quello che protegge (in armi) vari punti d’Europa: forma di lama, di lancia ha la cima. Contro i dragoni.
In quello che sembra il corso del paese il Museo della Memoria, grandi foto dei tempi passati sui muri. Soprattutto su un lato sono sbiadite: le feste, i volti di mucchi di bambini in posa sembrano svanire come ectoplasmi. La memoria, come nel chiostro del convento di San Bernardino, famiglie intere emigrate nel sud del Brasile, qualche costume tradizionale, matrimoni, battesimi, paiono pura evanescenza. Memoria che svapora in inesorabile oblio?

Incontro (primo spettacolo del pomeriggio): lei si presenta a noi spettatori come fossimo una scolaresca. Hanno ammazzato il fratello, qualche anno fa, per sbaglio, dice, innocente. Vuole mettere in guardia dalla violenza. Lui parla al telefono, disturba a voce alta, in dialetto, fa rumore, esce. Rivela che siamo in una finzione iperrealista col suo agitarsi. Anche a lui hanno ammazzato un fratello, scopriamo. Non era del tutto innocente, immaginiamo. Lei si avvicina a lui, si prende cura della sua irriducibile diversità, del suo sbraitare intollerante, del suo ritenere tutto inutile, tranne i soldi e la vendetta. Due classi sociali, unite nel lutto, nel vuoto, nella rabbia contenuta o esplosa, nell’assenza, nel desiderio di sollevarsi da questa terra. Neo-neo-realismo, didattico, di una compagnia, collettivo lunAzione, che a Napoli lavora molto con le scuole, che prova a mettere in scena gli scontri sociali, gli spettri, la raggiera di possibilità dei conflitti. Finendo, in questo Incontro, al debutto a Castrovillari, per dare, pure se con attori credibili (Federica Carruba Toscano e Lorenzo Izzo) conflitti così esasperati e didascalici da risultare scontati.

Le ciliegie di maggio. Le nespole giallissime all’albero, irraggiungibili dalla finestra con zanzariera che dà sulle case nuove della valle. A sinistra Monte Sant’Angelo.
Federica Rosellini, l’ho già scritto altrove, è attrice capace di incarnare nel corpo, nella voce, un’orchestra, una sinfonia, una tempesta di sentimenti, di emozioni, di modulazioni. In Ivan e i cani di Hattie Naylor, traduzione di Monica Capuani – suono, regia e performance dell’attrice-autrice – è un uragano di voci, suoni, risonanze. A un banco di regia musicale, con strumenti digitali, due bacchette di batteria e un kazoo, con una voce che si incide dentro, racconta la storia di un bambino perduto, scacciato, come in un’antica fiaba di paura, nella Mosca miserabile e terribile di Eltsin. Rifiuti, barboni, miliziani minacciosi. Come sopravvivere. Cani. Un cane grande e bianco, e altri cani, il suo branco. Gli ululati. Ferma dietro quel banco musicale Rosellini è trasformata in un ragazzino russo in una fiaba in cui la terribile Baba Jaga è quella società, quel mondo in cui bisogna farsi strada tra i detriti, umani, sociali, animali, per trovare un po’ di magia, sopravvivere. Capelli cortissimi (appena tagliati) e biondissimi. Calzoncini. Ci porta con lei (con lui, con lei-lui) nel labirinto della città ostile, ci trasporta in un mondo trasformato dalla gentilezza e dallo stupore di quel bambino, capace di diventare suono puro, frastuono, fuga, offerta, ringhio, ululato, cane tra i cani, orfano, reietto, volo verso qualche altrove forse sempre possibile. Ivan-Rosellini diventa, con le luci di Simona Gallo, circondata, limitata da una striscia di neon, città, ombra, presenza, figura ritagliata, in volo, santa e miserabile, animale, essenza, pulviscolo, aria, foresta, corsa nella neve bianca con le immagini dei suoi amici cani ritrovate come in un altro mondo non più umano, più umano, più naturale, tra la nebbia che avanza, o le nubi, mentre una cantilena russa ci ricorda che siamo nel sogno (impossibile) di concordia, di com-passione, di una terribile nera fiaba dolcissima. Ma di questa tornerò a parlare: questi sono solo frettolosi appunti, come scatenati assordanti applausi. (Il testo è stato pubblicato da Federica Iacobelli nella collana “i gabbiani” delle edizioni Primavera)

Tre spettacoli al giorno sono troppi. Una volta ne vedevo anche sei. Un festival ormai è troppo una gara di resistenza, per me. Quanti ne avrò visti in tutto? 8.000? 10.000? Perché? Perché continuare a guardare? Perché scrivere? Abbandonarsi all’alba che nasce dietro i monti, ormai. Al sole che rende arancioni, ancora più desiderabili, le nespole. Ma adesso bisogna smettere: ci aspetta la colazione con la ricotta fresca e la marmellata di limetta. E il sentiero lungo il tracciato della vecchia ferrovia per scendere a Castrovillari.
