Primavera dei Teatri 25 anni – Un diario (29 maggio)

Venticinque anni, e li dimostra tutti. Nel senso che prima di Primavera dei teatri a Castrovillari c’era poco. Era forte, solo, la volontà di tre ragazzi, Saverio La Ruina, Dario De Luca, Settimio Pisano, di fare teatro, anche là, lontano dal mondo culturale, in Calabria, sotto i prati e le rocce splendenti e solitari del Pollino. Oggi vi troviamo uno dei più bei festival di teatro italiani, una realtà pulsante, che dà spazio alla performance e alla nuova drammaturgia, a danzatori e attori, a un scena che cerca di vivisezionare, con passione, la nostra difficile, imprendibile, realtà. 

25 anni. Dedicati a un critico e didatta che ha seguito il festival dagli esordi e che ci ha lasciati: Claudio Facchinelli

Ci arrivi a fatica a Castrovillari, dal nord. Aereo. Scendi a Lamezia e sono ancora un centinaio di chilometri. Trovi Alberto, un magnifico autista (ma si chiamano “driver”) che deve passare anche da Paola, a prendere una collega. Un’ora e mezza di strada. Monti, paesini arroccati, mare. Ulivi. Boschi. Ginestre. Intanto faccio cambio di alloggio con Elisabetta. L’albergo di Castrovilalri anche questa volta (praticamente avviene un anno sì e uno no) è in ristrutturazione e artisti e ospiti siamo dispersi in un territorio abbastanza vasto. Io mi faccio sistemare a Morano, paese adorato, arroccato su un colle. Nella splendida villa San Domenico. Tra rose, ortensie, nespoli, alberi più o meno esotici, abeti, ulivi (sempre, ancora). Davanti a una delle cime più basse del Pollino, un monte triangolare.

Se non si fosse capito, questi scritti saranno una specie di diario. Il primo spettacolo alle 18.45. Arrivo in ritardo (devo scendere in auto, Morano dista 6 chilometri da Castrovillari) e qualcosa non ha funzionato. Mi fanno entrare nel buio. Vedo poco. Rischio di cadere (gli occhiali fotocromatici sono perniciosi dalla luce forte a quel buio che è la zona di decompressione verso l’altro mondo del teatro). Lo spettacolo testimonia una delle tracce di questo festival: l’attenzione alle creazioni del territorio e ai temi calabresi. Ricordo una lontana pièce proprio dei padroni di casa di Scena Verticale, Hardore di Otello, proprio agli inizi del festival: metteva in scena le case non finite calabresi e gli interni familiari (patriarcali, diremmo oggi) di queste parti. Francesca Ritrovato, da Catanzaro, in Alienate dà corpo e voce a donne che furono recluse nel manicomio di Girifalco. Usando semplici elementi di costume o oggetti si trasforma, incidendo ritratti di donne vessate, ritenute streghe o pazze, “zitelle” emarginate, donne che avrebbero voluto essere libere e che devono piegarsi a qualche volontà esterna: tutte espropriate della loro vita e rinchiuse in manicomio. Le musiche, dolci o incalzanti eseguite dal vivo da Fabio Macagnino, smorzano il dolore di questi quadri di violenza, che naturalmente, dato l’argomento, appaiono giustamente indignati e quindi a tratti corrono il rischio di risultare stereotipati o perlomeno prevedibili. Ma lo spettacolo è di quelli che bisogna fare, e vedere.

Altro giro, verso il centro del paese e il teatro Vittoria. Qui rivive la memoria di un testo di un autore che più volte è stato al festival, scomparso nel 2022, il drammaturgo e attore napoletano Francesco Silvestri. Crick (l’originale si intitolava Il topolino Crick) ci mette davanti a una strana macchina, che sembra uno di quei vecchi computer che ingombravano stanze intere o una colonna con oblò di varie lavatrici. È la storia, kafkiana, di una doppia acculturazione: di un addetto alle pulizie, Antonio, e di un topolino, Crick, sottoposti a test e azioni per incrementare la loro (scarsa) intelligenza. La vicenda di queste due cavie, scritta da Silvestri con Melina Formicola nel 1987, si sviluppa con apparenti successi e con (abbastanza scontati) esiti drammatici. Luca Iervolino è il bravo protagonista, capace di modulazioni e trasformazioni, di entusiasmi e cadute, rappresentazioni dello stato dell’essere umano reificato. Con lui, davanti a quella macchina che cambierà più volte funzione e aspetto, evocazione di visoni e immaginazioni tecnologiche, oppressivo tritacarneumana, Francesco Roccasecca rappresenta il dottore che conduce l’esperimento, con la regia di Rosario Sparno, in un omaggio sentito, doveroso, ben recitato, che fa rimarcare, però, come il tempo passi e renda meno mordente lo sguardo all’attualità futuribile. In fondo è il problema stesso della fantascienza, cui Il topolino Crick si ispirava (in particolare a Fiori per Algernon di Daniel Keyes): le trasformazioni del reale incalzano in modo tale da rendere semplicistiche perfino le proiezioni distopiche.

Ci sarebbe ora un ultimo spettacolo, alle 21.45 (con qualche doveroso ritardo). La giornata è stata faticosa, andiamo a mangiare. In fondo l’osteria “La torre infame”, vicino al Castello aragonese, è uno dei luoghi classici di questo festival, quello dove depositare questioni e immaginazioni davanti a un piatto di peperoni cruschi.

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