Leggeri sorridenti e filosofici sono gli spettacoli del Teatro delle Ariette. Alla fine di Noi siamo un minestrone, visto all’Oratorio/LabOratorio culturale San Filippo Neri per la stagione di Mismaonda a Bologna, c’erano ragazze giovani felici per averlo scoperto, il teatro di Paola Berselli e Stefano Pasquini, portate da una loro amica che chissà come era arrivata tempo fa al loro teatro-podere sulle colline tra Bologna e Modena.
Traspariva dei loro volti la stessa letizia inquieta che riempiva i nostri, un gruppo composito di spettatori, quando lo riscoprimmo, in un giorno di fine inverno del 2001, con il loro Teatro da mangiare?, uno spettacolo pranzo commovente, doloroso, acido perfino, sulla perdita dell’innocenza politica e sulla ricerca di una nuova vita, scappando dalla città nella campagna. Li avevamo variamente incontrati a Bologna, in anni in cui cercavano la loro strada, in modo ancora non del tutto risolto. E in quei giorni, con Teatro da mangiare?, con la natura ancora ghiacciata che stava appena risvegliandosi, dopo anni in cui sembravano aver abbandonato il teatro per l’agriturismo, sembravano averla trovata. E non l’hanno mai abbandonata da allora, riservandoci molte, moltissime emozionate sorprese.

Noi siamo un minestrone ha il loro stile immediato e incisivo. Si costruisce, inizialmente, su un vuoto che potremmo definire beckettiano (e un pezzo di Aspettando Godot sarà citato a un certo punto, indossando due cappellini a bombetta). C’è da fare un minestrone: alcuni spettatori sono invitati a tagliare le verdure, a pelare le patate, a versare acqua in due pentoloni. Ma non ci sono né verdure, né patate, né acqua. Così come rimane poco della vita precedente di Paola e Stefano, a giudicare dai monologhi, dalle canzoni delicate che sentiamo.
Paola racconta di come fugge sempre di più la gente e vorrebbe, invece, scoprire la tana della volpe, con i suoi cuccioli, vedere, momento per momento, il grano crescere, le gemme diventare fiori, mentre la luna splende in cielo. Si perde nella primavera… Lui parla di patate e di pane, di tutte le farine provate, e di come mai lo soddisfino. Confessa di amare sempre meno i mezzi meccanici, per lavorare la terra, e di rimanere incantato dai fili di bava che si vedono in certe giornate sulle zolle in controluce e di pensare che anche noi siamo fatti di pulviscoli di cellule di elettroni, in quel corpo infinito che è l’universo. Pensano a quando uno dei due non ci sarà più. Raccontano di una malattia che ha tenuto Stefano lontano dal podere per un periodo sembrato lunghissimo.

Ci sono momenti in cui coinvolgono giovani spettatori, chiedendo loro di immaginare come era un altro spettatore o una spettatrice più anziano a vent’anni. Sentiamo molto il senso del tempo che passa. Viene evocato il Living Theatre, il suo pacifismo radicale di quei ragazzi che si chiamavano Judith Malina e Julian Beck, incontrati da Paola e Stefano in anni lontani. E compiono altre azioni, sempre essenziali, sempre guidate da malinconici (appagati? dubitosi?) sorrisi. Altri racconti fanno il computo degli spettacoli rappresentati, dei piatti lavati in questo teatro sempre attorno a tavoli di varia forma e al rituale del mangiare, del condividere (cibo che si fa corpo e sangue?).
Poi Stefano toglie la camicia a Paola. Paola toglie la camicia a Stefano. Le poggiano, affiancate, sovrapposte, su uno dei loto tavoli bassi. Le coprono. Si siedono sopra quelle effigi temporanee dei loro corpi, delle loro figure. Lei prende in grembo la testa di lui, in una sorta di Pietà, e racconta la visione finale: hanno abbandonato il loro podere, il loro teatro e sono andati via, non si sa dove, forse (ma questo lo dico io) in un altro regno. Tutto, abbandonato, continua a vivere, con il suo ritmo: gli animali si organizzano per difendersi dai predatori, l’erba a crescere naturalmente, con qualche spiga, con qualche pianta germinata da semi piantati molti anni fa. Sotto sentiamo la voce di velluto di Caetano Veloso che ci accarezza con Cuccurucu Paloma, mentre lo sguardo del racconto si concentra sul teatro in cima al colle, tirato su da loro mattone per mattone, abbandonato, dove ancora le locandine, i programmi, le foto, le sedie, quando loro sono partiti, raccontavano una storia passata, che avrebbe potuto rivivere. Solo una scritta accoglieva il passante o il curioso: rispettate questo luogo. Questo angolo di paradiso.

Non c’è molto da aggiungere a questo minestrone, che è la storia della vita. Se lo spettacolo fosse stato davvero radicale (e anche un po’ sgarbato, feroce) a quel punto, sugli applausi, avrebbero dovuto lasciarci andare con le ciotole (e le pance) vuote, delusi, senza il cibo solito dei loro spettacoli, con un giusto senso della trasformazione, della fine, con una sottile radicale crudeltà a distruggere le nostre attese (Ariette+minestrone=cibo). E invece le Ariette sono sempre loro: il teatro, se non si fosse capito da quel versare acqua inesistente da ciotole vuote, da quell’affettare verdure immaginarie, è rito, ed è l’incontro che in quel rito avviene. E allora da sotto un tavolo, ben celato, appare il pentolone del minestrone, bollente; compare il pane, a forma di spiga, e il teatro si prolunga in una mezz’ora di cibo frugale, di chiacchiere, di incontro, tra noi vecchi che seguiamo questi coetanei da anni, che abbiamo visto i capelli di Paola biondi, rosso tiziano, rosso fuoco e ora grigi, e nello stupore e nei sorrisi di quelle ragazze e di quei ragazzi che hanno scoperto non solo un teatro, ma un mondo. Un’esperienza di vita che vorrebbe creare il paradiso in terra: e sa quanto sia difficile.
