L’identità è il tema deflagrante del bellissimo Come gli uccelli di Wajdi Mouawad, pubblicato nella collezione di teatro di Einaudi. Il Mulino di Amleto – con la regia di Marco Lorenzi, la traduzione di Monica Capuano, l’adattamento di Lorenzo De Iacovo e dello stesso Lorenzi, con vari coproduttori – ne ha tratto uno spettacolo altrettanto bello, che sono riuscito a perdere in tutte le repliche di quest’anno, recuperandolo proprio all’ultima, al teatro Piccinni di Bari, stagione di Puglia Culture.
Cosa succede quando un israeliano e un’araba si innamorano? Varie sono le complicazioni: il padre di lui è un ultraortodosso e si oppone anche solo a conoscere lei; lei sta facendo una ricerca su al-Wazzân, un diplomatico arabo del Cinquecento catturato dai cristiani, costretto a convertisti, spedito in regalo papa Leone X e vissuto simulando una fede, una vita, non sua.
Il ragazzo, Eitan, è innamorato perso della bellissima Wahida: allora prova a risalire le origini, recandosi in Israele (i due vivono a New York, la famiglia di lui a Berlino), a trovare la nonna, Leah, separata dai tempi della strage di Sabra e Chatila dal nonno, per cercare di capire qualcosa della storia della famiglia e soprattutto dell’oltranzismo del padre. Le cose si complicano ulteriormente: mentre lei è sottoposta a interrogatorio e perquisizione da parte di una soldatessa, che non saprà resistere al fascino di quella donna bellissima, Eitan viene ferito in un attentato. Arrivano i familiari, si incontra la nonna, mentre Wahida, capisce che deve stare dall’altra parte del muro, dove sono confinati gli arabi. Una scoperta finale, nello spettacolo più annunciata che nel testo, porterà all’esplosione delle sicurezze identitarie, in una terra dove gli scontri, gli incontri, le mescolanze sono (erano) all’ordine del giorno.

Il testo, caratterizzato da continui salti temporali e di situazione, è stato pubblicato in Francia dall’autore, nato in Libano nel 1968, cittadino canadese, residente a Tolosa, “uno degli uomini di teatro più importanti del mondo” scrivono giustamente le note biografiche sul retro del libro, autore di rilievo (premio Ubu 2024 come miglior testo straniero rappresentato in Italia), regista, occhio attento agli incendi contemporanei. Arriva in Italia in un momento particolare, che ripropone la questione israeliano palestinese. La storia di Mouawad ripercorre, per frammenti familiari, gli episodi più recenti di quello strazio, dalla Shoah, alla Guerra dei sei giorni del 1967, al massacro di Sabra e Chatila del 1982, fino agli attentati esplosivi che hanno funestato quelle terre prima del 7 ottobre.
L’allestimento di Lorenzi del 2023 – con attori ottimi, immedesimati nei personaggi o giustamente da loro distanziati (Federico Palumieri, Lucrezia Forni, Barbara Mazzi, Irene Ivaldi, Rebecca Rossetti, Aleksander Cvjetovič, Said Esserairi, Raffaele Musella) – si svolge intorno a un muro rotante (scene e costumi di Gregorio Zurla), che si riempie di proiezioni, con le didascalie, le traduzioni di parti in arabo o in ebraico, con una pioggia che somiglia a lacrime e richiama il Muro del piano, con immagini di onde che si frangono, lente, immense, su una spiaggia. Le atmosfere luminose create da Umberto Camponeschi, il disegno sonoro di Massimiliano Bressan, le musiche originali di Elio D’Alessandro contribuiscono a una ricerca profonda dentro quello che si è, che si crede di essere, che si vorrebbe essere, creando scontri continui tra le leggi insopprimibili del desiderio e il pregiudizio, lo stereotipo, la finzione. Squassanti sono la scena in cui la verità viene a galla e il momento finale, quando l’identità si dissolve in fantasma e si ricorda che gli uccelli in volo sono capaci di superare tutti i muri. E si racconta la favola dell’uccello che si fece pesce, perché non esistono limiti alle possibilità del nostro essere, nonostante i divieti, le norme, le fedi, le pretese identità costringenti.
Le oltre tre ore dello spettacolo scorrono in un soffio, lasciandoci pieni di pensieri e di quella difficile bellezza che scaturisce dalle opere d’arte spigolose, capaci di affondare il bisturi nella nostra carne più dolente, più malata.
Le fotografie sono di Giuseppe Distefano
