C’è una persistente, struggente nota malinconica negli spettacoli (non molti in realtà) che ho visto in questa stagione al Metastasio di Prato, tutti di altissima qualità teatrale. E un tentativo di sfidare la tristezza che può divorare provando a proiettarsi altrove dal grigiore quotidiano, per inventare altre possibilità. Si iniziava con quel rito che occupava ogni anfratto del Fabbricone che era Beautiful Creatures. Terra di lupi, di lantanidi e ginestre di lacasadargilla, un viaggio nelle parti grigie o nere della luminosa drammaturgia di Giuliano Scabia, un sottrarsi all’allegria come necessità e abbracciarla come difficile possibilità.
Si piangeva alla fine di Capitolo due di Neil Simon, regia di Massimiliano Civica, sulle note di “Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi…” di Lucio Battisti, mentre vedevamo impercettibilmente le luci sfumare su una nuova coppia, costituita (forse) dopo lutti, paure, ccontrasti.
Ci ritrovavamo in una situazione kafkiana, con un’accusa senza fondamento, in L’infamante accusa di assenza di Oscar de Summa, un viaggio in un’ignavia generazionale che diventava inconsapevole colpa.

Ora in Abracadabra siamo davanti a uno spettacolo di magia che celebra, con dolore lenito dalla fuga in un mondo d’immaginazione, la scomparsa e la ricomparsa grazie al teatro di un corpo fatto a pezzi e sparito per sempre, come un mucchietto di carte che il prestigiatore fa strappare al pubblico, poi mischiare, e alla fine ci ritroviamo magicamente con due pezzi che ricompongono il joker, o l’asso di picche, o la donna di quadri che avevamo all’inizio.
Abracadabra è uno spettacolo di Babilonia Teatri. Dai loro primi exploit con testi mitragliati frontalmente allo spettatore per raccontare l’attuale disintegrazione sociale, i pregiudizi del Nord Est (e di tutto il paese), le violenze della normalità, hanno sempre provato a esplorare forme nuove, facendo della scena un luogo di incontri sorprendenti, dove recitavano, per esempio, i loro figli in un lavoro sui danni contro l’ambiente naturale, oppure dove si metteva in scena un sabato pomeriggio di furti generalizzati in un ipermercato o dove si portavano a recitare nella favola di Pinocchio tre attori reduci da esperienze di coma, facendo del loro procedere e parlare spezzato un’emozionate viaggio nella fragilità. Questa volta l’incontro è avvenuto con un mago, Francesco Scimemi, che all’inizio taglia a pezzi una donna, la brava Emanuela Villagrossi, che pare figura di un altro mondo. Come valletti lavorano i due Babilonia, Enrico Castellani e Valeria Raimondi, in uno spettacolo che chiede la complicità del pubblico, per esempio con le carte strappate, che alla fine farà trovare, agli spettatori che casualmente li hanno evocati, in una busta sigillata una rosa d’agosto proveniente da 9.000 anni luce di distanza.

Qui, come sempre nelle opere della compagnia, alla base dello spettacolo è dichiarato esserci un fatto reale: la scomparsa, per un tumore, della compagna di Scimemi. Non sappiamo se l’evento sia reale: ma sicuramente è toccante, commovente, spezza qualcosa dentro allo spettatore e rende i testi, pur con qualche momento retorico, capaci di incidere a fondo. Il resto lo fanno i giochi di magia, che continuamente sembrano distogliere dalla tragedia per poi farci ricascare dentro di essa. Arriva una poltrona, vuota: e su di essa, all’improvviso, appare la donna dell’inizio, con la veste rossa e i piedi nudi. Sempre distante, ieratica, come in un’altra dimensione, si muove su un tappeto di fumo basso, di nubi, per poi essere di nuovo ingoiata dalla poltrona. Apparire, sparire, diventare una stella e riprecipitare come polvere di stelle. Andare in cielo / finire sottoterra / volare tra le nubi…
È questo il gioco della magia, cambiare continuamente stato, mutarsi, deludere le apparenze, evaderle, chiedere agli occhi di guardare più a fondo, di fronte al niente. Ma è anche il gioco del teatro, la sua forza mitopoietica. Ed è il gioco della vita, di questo nostro temporaneo esserci e poi scomparire, ridendo, piangendo, soffrendo, scherzando, vivendo, morendo…
Allora la tristezza, la malinconia, diventa necessaria come la catarsi di cui parlavano i greci: exemplum, specchio, nostra ipocrita sorella di (breve) cammino di vita. Affrontato, il cammino, con magia: con l’arte di riuscire sempre, comunque, a stupire. A stupirci.

Le foto sono di Eleonora Cavallo