Difficile continuare questo diario. Complicato assolvere questo compito che mi sono dato, di seguire giorno per giorno Primavera dei Teatri. Forse sospendo con quest’ultima cronaca, tra i gatti di Morano alto, veri padroni del paese, insieme a qualche abitante gentile che dà sempre il buon giorno, tra case vuote o abitate con discrezione e le chiese chiuse o aperte per poco tempo (chissà oggi che è domenica e che rombano i motori per un memorial che si svolgerà dalla chiesa dei cappuccini verso Castrovillari). Ho percorso a piedi la ciclovia lungo il tracciato della vecchia ferrovia, un cammino incantato tra monti, ginestre, fiori selvatici, miracolosamente tutto in piano: meno di due ore a piedi, 40 minuti in bicicletta normale, 20 con pedalata elettrica lanciata in velocità.

Il festival come nei giorni scorsi è pieno di momenti da seguire. La mattina vengono presentati due libri, l’appassionato racconto di Francesca Saturnino per Sossella editore dell’avventura teatrale e pedagogica di Marco Marinelli a Pompei con Aristofane e la non-scuola, con apparizioni di allievi che hanno trovato la loro strada nel teatro e di maestri amati e perduti come Enzo Moscato (La non scuola di Marco Martinelli. Tracce e voci…). Segue Trilogia del dissenno II di Rino Marino, presentato da Filippa Ilardo, studiosa del nuovo teatro siciliano. Libri ogni mattina. Teatro dei libri, libri che allargano la visione, le storie del teatro.

Appunti. Questo diario non vuole essere altro. Fermare momenti e discutere qualche questione. In Domineddio, uno studio all’inizio, Cecilia Foti e Saverio La Ruina mettono in scena la violenza di un uomo sulla sua donna. In MollyLetizia Russo (giovane attrice, da non confondere con la drammaturga) per Cubo Teatro narra di una ragazza che parla solo con il suo computer, che lancia messaggi nella websfera. Sono biglietti di solitudine, di moda, di make-up, nel sogno di diventare influencer che si realizza solo nell’amore per un’altra ragazza, l’unica che risponde, che altri non è che sé stessa, la propria immagine, l’ossessione della propria solitudine e di essere qualcosa, comunque di consistere da qualche parte, in un affetto. Sono due storie vere, che si esauriscono presto nella ripetizione di cose che tutti i giorni televisioni e giornali ci ripetono. Senza troppi scarti, senza troppi salti. La strada del realismo, delle “storie vere” è quella giusta? O forse sono più interessanti i balzi in climi differenti, che trasfigurano la realtà, la moltiplicano; in favole nere come quella narrata in Ivan e i cani di Rosellini, con una distanza espressiva notevole. O, altrimenti, possono essere più sorprendenti e coinvolgenti ipersensibilizzazioni di una realtà di devastazione interiore, con speranze di una qualche (im)possibile redenzione, come in Cari spettatori di Danio Manfredini?

Danio non è in scena. Ci sono due suoi attori, i bravissimi Vincenzo Del Prete Giuseppe Semeraro. Ma sembra di vederlo i quei due corpi che si trascinano, con dolore o con insofferenza, con visionarietà biblica e desiderio di esibizione o con sottrazione rabbiosa, in uno scenario di quelli cari all’autore milanese, due lettini in ferro da vecchio ospedale o da istituto, un tavolo e qualche sedia di uguale stile e senso, due comodini, un telefono grigio fisso, di quelli di una volta. Siamo in una casa famiglia, in un luogo successivo al ricovero, alla crisi, un’ultima Thule dove devono convivere diversi offesi dalla vita, che cercano comunque di dare un colore ai propri giorni. Uno si proietta in un improbabile copione teatrale, infarcendolo di messaggi biblici, religiosi. L’altro vive la propria emarginazione come insofferenza. Il dolore, come sempre nelle opere di Manfredini, diventa spessa corteccia che cela il desiderio di vivere, di trovare un senso, qualunque, al trascinarsi di esistenze emarginate. C’è un Beckett più domestico, c’è il post-manicomio, c’è una luce particolare, unica, che si ritrova solo nelle opere di questo grande artista, capace sempre di rovesciare la banalità quotidiana in qualcosa d’altro, il trascinarsi in un’attesa. Di che cosa?

Pensiero finale – forse improprio – sulle “storie vere”, sugli interni (inferni) familiari o di solitudine: dove sono andate a finire le complessità di scavo, il rovistare dentro i rapporti, le assenze, di Ingmar Bergman, di Michelangelo Antonioni, di Samuel Beckett, di Thomas Bernhard?