Quelle che seguono non sono recensioni e neppure un diario regolare, come ho fatto da Primavera dei T Teatri di Castrovillari. Sono note, appunti, brevi, piccole riflessioni.
Alla fine applausi. Insistiti. Sconsolati. Perché il pubblico (molti sono giovani, non so quanti spettacoli dell’Odin Teatret abbiano visto) non sa che quegli attori non escono mai, alla fine. Evitano quel momento imbarazzante dei sorrisi dopo la tragedia. Evitano di togliersi la maschera. Di farci liberare dai fantasmi evocati.
Lo spettacolo Le nuvole di Amleto è basato sul romanzo Nel nome del figlio. Hadmet di Maggie O’Farrell (Guanda), storia romanzata del figlio Hadmet di Shakespeare, morto a 11 anni di peste nel 1596. Secondo alcuni (secondo la scrittrice) quell’episodio sarebbe stato all’origine di Amleto. Suggestione poetica: sappiamo poco di Shakespeare, della sua vita, e ancor meno di quel bambino, testimoniato solo dall’iscrizione nei registri delle nascite della parrocchia di Stratford-upon-Avon.
Le nuvole di Amleto si apre con fiamme, fiamme proiettate su due teli verticali in fondo, che poi si riveleranno dorati. Parla di padri che macellano i figli, che li spingono alla vendetta, spegnendo i loro amori, i loro ardori, le loro speranze. Non a caso, proprio al centro dello spettacolo, una sequenza di foto di bambini che impugnano armi in varie parti del mondo irrompe, facile se volete, di facile capacità di mozione emotiva, ma capace di colpire.
Il fantasma del padre di Amleto è intabarrato. Col volto coperto da una strana maschera e da occhiali scuri. È una sottrazione forte, perché sotto quelle sembianze si cela Else Marie Laukvik, una di quelle attrici che nel 1964 abbandonarono con Barba la Norvegia per fondare l’Odin Teatret in Danimarca. Un simbolo profondo del gruppo dell’Odin, gruppo che sopravvive nonostante sia stato messo alla porta (dai figli!) dal Nordisk Teaterlaboratorium di Holstebro.
C’è molto di edipico, un Edipo rovesciato, in questo spettacolo, che mantiene, con rivendicazione e un bel po’ di (comprensibile, giustificato) manierismo, gli stilemi di questa compagnia che è un miracolo del teatro, con i suoi oltre sessant’anni di attività. I figli sono sacrificati dai padri: viene loro interdetta la possibilità di amare, di vivere vite piene, di realizzarsi. Hanno compiti terribili da assolvere, in un mondo vecchio, raffigurato da Claudio, da Gertrude e dallo stesso fantasma del padre di Amleto, intabarrati in costumi esotici e sontuosi, mentre loro, Amleto e Ofelia, cantano, suonano, ballano, si offrono senza limiti né condizioni.
E poi c’è il finale, straziante, con il fantoccio di un ragazzino, estratto da una culla che sembrava vuota, un canto di quelli che stringono lo stomaco, di quelli che l’Odin sa comporre, tra tradizioni folkloriche di varie parti del mondo e invenzione pura.

Che dire: esci un po’ perplesso. Manierismo? Qualcosa di già visto altre volte dall’Odin (e che male c’è)? L’adattamento di un romanzo assai fantasioso? Ci dormi su una notte.
Ripensi alle citazioni (dall’Enrico V? dal Macbeth?) Da Amleto, naturalmente, e forse, non rivelata, da Pasolini e Otello – Otello e le nuvole –, con quelle nuvole, belle, che tornano varie volte oltre che nel titolo, ad aprire lo sguardo verso il cielo. E ti sembra che il vecchio leone, scacciato dalla Danimarca dai figli, ruggisca sempre, capace di desiderare un futuro differente per quei giovani, di mescolare letteratura e teatro, sguardo al presente e densità arcaica che ci riporta a qualcosa di profondo, di inciso dentro di noi, nascosto, da portare alla luce, sotto quel cielo di mobili nuvole.
Lunga vita a questo fantasma, come il padre interpretato da Else Marie Laukvik. Lunga vita a Eugenio Barba, ai suoi attori, all’Odin Teatret, naviglio capace di resistere alle tempeste della cronaca e della storia. Di farci guardare in alto, mentre ci spalanca la vertigine degli abissi.