Il 27 settembre ho partecipato a un convegno organizzato dalla Fondazione Teatro Metastasio di Prato sul teatro pubblico. Qui l’abstract e il testo del mio intervento:

ORE 11.30 / 27/9/2025 – Prato

 TEATRO PUBBLICO: NOSTALGIA DEL FUTURO 

Intervento a cura di Massimo Marino, giornalista, critico, studioso e operatore teatrale.

Abstract

“A partire dal Piccolo Teatro di Grassi e Strehler, primo esempio di teatro “d’arte per tutti”, nato con una vocazione di servizio pubblico, fino agli statuti di fondazione degli Stabili, ricorderemo la storia del Teatro Pubblico nel nostro paese, con qualche escursione oltreconfine: per riscoprine i valori costitutivi e le funzioni sociali, culturali e civiche; per ritrovare nel passato quei fermenti ideali che sono anche preziose indicazioni di visioni future”.

Testo

Prologo

«Dalle notizie che riportano i giornali, a Milano si sarebbe costituita un’associazione di volonterosi spettatori che si prefigge di incoraggiare il teatro fischiando il cattivo. A capo di questo movimento sono alcuni critici battaglieri, mentre la massa è fornita dagli universitari e dalle avanguardie culturali, che vedono nel teatro – e nessuno saprebbe dargli torto – il presidio e lo specchio di una società». 

Così scriveva Flaiano su «La città libera» il 22 novembre del 1945[1]. E ricordava come i nostri intellettuali avessero abbandonato il teatro, presi principalmente «dagli avvenimenti politici»: «uomini che avevano promesso drammi e tragedie hanno preferito scrivere articoli di fondo […] evidentemente il teatro, come il coraggio, uno non se lo può dare per forza». Da questa anamnesi desumeva un’incapacità di «guardare ai nostri difetti e alle nostre angosce in termini di spettacolo, cioè di tradurli per l’universale». Lodava i fischi contro «le voluttà del repertorio scaduto» ma altresì concludeva che quei fischi «potrebbero, per esempio, servire a spingere quei giovani fischiatori sulla via del palcoscenico». E con il suo cinico scetticismo, in quell’autunno del dopoguerra, con l’Italia in macerie, era ottimo profeta.

Tra quei fischiatori c’erano, è noto, Giorgio Strehler e Paolo Grassi, che un po’ meno di due anni dopo avrebbero fondato il Piccolo Teatro della Città di Milano con un programma chiaro, dirompente, che voleva provocatoriamente il teatro alla pari di un servizio pubblico, come la metropolitana, la luce e il gas, qualcosa di profondamente innervato nella vita della città, un teatro d’arte per tutti. D’arte, quindi un teatro impegnato, capace di stimolare discussioni civili, di ricostruire una socialità messa a dura prova dal fascismo e dalla guerra; un teatro capace di offrire  oggetti di alto valore estetico, ma accessibili a tutti, o perlomeno al maggior numero di persone, convogliate nelle sale di questo teatro pubblico attraverso le organizzazioni esistenti, i sindacati, innanzitutto, e i partiti. Quando usiamo queste parole per quegli anni non bisogna pensare agli smorti fantasmi che oggi intravediamo dietro quelle sigle: dobbiamo ricordare come fossero organizzazioni vive, radicate nella società, che assumevano iniziative politiche, rivendicative, ma anche pedagogiche, culturali, per formare il cittadino di una nuova nazione, la Repubblica Italiana fuoriuscita dalle rovine del fascismo. Così scrivere «della città», Piccolo Teatro della Città di Milano, aveva un senso profondamente diverso da quello che potrebbe avere oggi, tant’è che gli Stabili che seguirono l’esempio del Piccolo, quello di Genova nel 1951 (ma in realtà a partire dal novembre del 1947) e quello di Torino nel 1955 si chiamarono, nella prima formulazione del loro nome, «Piccolo Teatro della Città di Genova» e «Piccolo Teatro della Città di Torino».

Piccolo, perché se pur con finanziamento pubblico e con missione pubblica, estetica, civile, sociale, di allargamento del repertorio e del bacino degli spettatori, avevano trovato casa in sale di limitata capienza; della città perché si rivolgevano principalmente alla città. Verranno dopo gli Stabili regionali, i circuiti e molte altre forme di teatro pubblico o a vocazione pubblica: ma questo è un altro discorso.

Della città. Cosa erano allora le città? Luoghi distrutti, al Nord, con strade case palazzi e monumenti da ricostruire. Nella mia Bologna, ad esempio, la biblioteca dell’Archiginnasio aveva subito un bombardamento e il crollo di un’intera ala, quella dove in seguito è stato ricostruito il teatro anatomico. Soprattutto, però, dopo il fascismo e la guerra, da ricostruire era il senso della comunità. Lo stesso termine, città, lo usiamo oggi, ma ha un senso molto differente: le parole, come gli esseri umani e forse più in fretta, invecchiano. Oggi la città è un luogo esploso che si offre alle opportunità che gli individui sanno procacciarsi; sono i luoghi della solitudine, della polverizzazione, dei comitati di affari, della speculazione edilizia; sono spesso «città groviera», come Alessandro Leogrande chiamava Taranto, in cui strati diversi di funzione ed esperienza urbana coesistono, senza sintesi e spesso con vistose contraddizioni. Oggi chiamare un teatro «della città», come fa l’ultimo decreto ministeriale per il teatro, vuol dire piuttosto calcare la mano su un certo localismo, su un’idea fallace di identità e di contrapposizione con altre identità. 

Allora si cercava la sintesi, magari con qualche didatticismo di troppo, ma si provava a ricostruire non solo i muri e le vie ma anche le relazioni tra chi popolava uno stesso luogo. 

Perciò un teatro d’arte per tutti

Scrivevano Mario Apollonio, Paolo Grassi, Giorgio Strehler e Virgilio Tosi nella Lettera programmatica per il Piccolo teatro della città di Milano:

Noi non crediamo che il teatro sia un’abitudine mondana o un astratto omaggio alla cultura. Non vogliamo offrire soltanto uno svago, né una contemplazione oziosa e passiva: amiamo il riposo, non l’ozio; la festa, non il passatempo. E nemmeno pensiamo al teatro come a un’antologia di opere memorabili del passato o di novità curiose del presente, se non c’è in esse un interesse vivo e sincero che ci tocchi .[…] Il teatro resta quel che è stato nelle intenzioni profonde dei suoi creatori, quel che è nella sua necessità primordiale: il luogo dove la comunità, adunandosi liberamente a contemplare e a rivivere , si rivela a se stessa; dove s’apre alla disponibilità più grande, alla vocazione più profonda: il luogo dove fa la prova di una parola da accettare o da respingere: di una parola che, accolta, diventerà domani un centro del suo operare, suggerirà ritmo e misura ai suoi giorni.

Al teatro, dietro il giuoco magico delle forme, cerchiamo la legge operosa dell’uomo: del poeta, che può offrire un’immagine necessaria solo se la cerca nel profondo della sua sostanza viva; dell’attore, che nel dar vita al fantasma mitico prodiga la sua stessa esigenza di creatura umana; e soprattutto degli spettatori, che, anche quando non se ne avvedono, ne riportano qualcosa che li aiuta a decidere nella loro vita individuale e nella loro responsabilità sociale.

Il teatro, che deve essere «a gestione pubblica, a produzione stabile»[2], come ebbe a dire Paolo Grassi, deve misurarsi con la platea. Il documento continuava così:

«Il centro del teatro siano dunque gli spettatori, coro tacito e intento.

2. Vogliamo dire qualcosa. Trasportare il teatro in platea significa, anche per i teatranti, prendersi la responsabilità di quello che sottopongono agli spettatori.

Rifiutiamo gli esperimenti della letteratura pura.

Rifiutiamo le decorazioni della pura scenografia.

Rifiutiamo l’avallo gratuito della moda.

Rifiutiamo ogni concessione alla sensualità della folla.

Rifiutiamo le frasi fatte, i luoghi comuni, il conformismo del costume politico e sociale.

Chiediamo al coro la responsabilità della vita morale.

Saremo dunque severi, escludendo ogni eclettismo verso forme vacue sia che appartengano al catalogo del passato, sia che acclami la moda; e alla dignità che attribuiamo all’atto drammaturgico corrisponderà la dignità delle occasioni offerte dai testi e dallo spettacolo»[3].

L’idea di comunità è forte in tutti questi Piccoli Teatri delle Città. Andiamo all’articolo 2 dello statuto di Torino del 1955:

«L’Ente non si propone nessuna finalità di lucro ed ha lo scopo di promuovere manifestazioni teatrali di prosa e culturali, le quali per dignità e decoro artistico, siano consone alle migliori tradizioni del teatro e della municipalità torinese, provvedendo inoltre e concorrendo alla più larga diffusione di ogni corrente culturale e teatrale presso la cittadinanza e particolarmente presso le masse lavoratrici.

A tale scopo l’Ente potrà valersi della collaborazione di associazioni o di enti operanti in Città e nella Regione a fini analoghi, promuovendone o favorendone l’attività e lo sviluppo».

La governance è affidata a un consiglio di amministrazione presieduto dal sindaco, costituito da esponenti della società dello spettacolo, cioè rappresentanti degli industriali, dei alavoratori dello spettacolo, autori drammatici e altre figure ritenute importanti, nominate dal sindaco. Il finanziamento è comunale, ma anche statale.

Insomma i primi teatri stabili (altri ne seguiranno) sono teatri delle città, a finanziamento pubblico, con scopi miranti al bene comune della città medesima.

Presto due saranno le ulteriori strade: da una parte la trasformazione dell’etichetta che li identifica in, appunto, teatri stabili, in contrapposizione alla instabilità delle forme organizzative tradizionali del teatro italiano, basate sulla compagnia di giro. Dall’altra, circa un decennio dopo, negli anni 60, l’irrigidirsi in forme di controllo burocratico, con forti intromissioni dei partiti.

Il modello dei teatri stabili è francese, in particolare quello della Comédie Française, per la struttura nazionale dell’impresa, e quello del teThéâtre National Populaire di Jean Vilar per la filosofia del teatro d’arte come servizio pubblico. I teatri stabili contrastano l’idea di un teatro vagabondo, come avevano provato a fare, senza riuscirvi, alcune compagnie dell’epoca napoleonica, con un progetto di educazione civile degli spettatori, e compagnie come la Reale Sarda o quelle di Boutet e di altri a Roma tra 800 e 900, o la Compagnia drammatica nazionale di Virgilio Talli nel 1921, esperienze tutte esauritesi in un arco di anni che poteva andare da una stagione a qualcosa di poco più di 20 stagioni. Ma questa volta non erano «compagnie reali» e neppure «nazionali», ma «piccoli teatri» radicati nelle città.

Livia Cavaglieri, nell’articolo Memoria e stabilità: i racconti della costruzione del teatro pubblico in Italia, raccolta degli atti di un convegno del 2014, ricorda come la parola stabili sia cambiata nel tempo[4]. A quelli delle città e poi a quelli di frontiera o regionali (Bolzano, Trieste, Abruzzi, poi Stabile dell’Umbria, Teatro della Toscana, Emilia Romagna Teatri), definiti «stabili a iniziativa pubblica», si sono aggiunti gli stabili a iniziativa privata e quelli di innovazione. La parola poi è stata cancellata dal decreto del luglio 2014, che li ha ribattezzati teatri nazionali, teatri di rilevante interesse culturale, imprese e centri di produzione teatrale, circuiti regionali eccetera. In realtà, dagli anni 50 alla metà degli anni 10 del 2000, gli ambiti del teatro pubblico si erano moltiplicati, accompagnati da forme associative o anche di iniziativa privata che però rivestivano una funzione pubblica, spesso, quindi, supplendo ciò che il teatro pubblico «ufficiale» non riusciva a fare o che non voleva più fare. 

Ricordo le polemiche contro gli “stabili” come teatri fermi, esplose intorno al 1968. Esperienze che cercavano di recuperare la vocazione pubblica del teatro rifiutando il decentramento come proposizione nelle periferie di spettacoli prodotti al centro, rappresentati per lo più in luoghi inadatti, senza vero interesse per gli spettatori di quei luoghi, vedevano i tentativi di far nascere, dall’incontro con le comunità locali o con luoghi come il manicomio o il carcere un  «teatro organico» alle comunità stesse. Così lo definì Giuliano Scabia nel 1969-70 in un’esperienza, propiziata prima e poi avversata dallo Stabile, nei quartieri periferici di Torino, dopo l’autunno caldo, in cerca di un coinvolgimento delle collettività dei diversi luoghi su temi per loro «caldi». Ma molte altre furono e sono ancora oggi le strade di ricerca di una funzione pubblica del teatro, perché esso possa essere rivendicato come bene comune, da difendere dai periodici attacchi alla sua autonomia, alle sue economie, alla sua capacità di progettare insieme agli spettatori.

Elenco, confusamente, certo di dimenticare qualche nome, qualche esperienza:

una risposta alla crisi verticistica dei teatri stabili, sempre più in ostaggio dei partiti, negli anni introno al 68 e in quelli immediatamente successivi, fu l’istituzione di cooperative teatrali basate sull’idea di un lavoro comune e di ascolto delle esigenze dei territori. Il Teatro della Albe agli albori degli anni 90 voleva essere uno «stabile corsaro», in corsa, incapace di museificarsi; teatro stabile d’innovazione recitò, con evidente ossimoro, un’altra etichetta. Leo de Berardinis, propugnatore agli inizi degli anni 70 di un teatro dell’ignoranza, attuato nell’entroterra campano, a Marigliano, cercò di realizzare un teatro come viaggio verso territori sconosciuti (ignoranza), creando a Bologna Lo spazio della memoria, un teatro laboratorio che avrebbe voluto essere agorà, luogo di confronto, scontro, riflessione con la città e le sue politiche e arrivò, nelle sue ultime stagioni, a prospettare l’idea di un teatro nazionale di ricerca. Più recentemente, pur in una situazione di continui taglia dei finanziamenti, si è attuato un teatro delle residenze creative e i festival, nei migliori casi, hanno assunto un ruolo di vero e proprio propulsore di una cultura teatrale, con tutte le ricadute che può comporatre, in territori con scarse attrezzature e tradizioni teatrali, e così pure vari gruppi.

Il modello di tutti queste esperienze, cui per ragioni di tempo posso solo accennare, è quello di un teatro che si rivolge agli spettatori come pubblico, ossia come interlocutori per discorsi estetici, sociali, civili, per mostrare, per sperimentare anche differenti possibilità di vivere e di immaginare la vita. 

La nozione di «spettatori» forse chiude troppo il campo, facendo immaginare persone con l’abitudine a frequentare il teatro. È stata introdotta e sostituita spesso al termine «pubblico» per marcare un insieme di teste pensanti, più che un indistinto insieme. Ma il termine «pubblico» forse va recuperato in molte direzioni: per indicare la comunità che dialoga con le proposte degli artisti, per marcare la necessità di un discorso aperto alla società che incrementi le occasioni di incontro con il teatro anche per chi non ha l’abitudine alla frequentazione delle sale, raggiungendo nuove persone tenute lontane dall’arte e dalla cultura, migranti, giovani, emarginati. 

Pubblico come comunità: da ricostruire, partendo dalla frammentazione di un presente individualista, disgregato, senza radici, cogliendo queste mancanze come opportunità per nuove tessiture. 

Teatro pubblico, che non può essere tagliato, sottoposto agli arbitri di una parte politica vincente, perché in esso, e nella cultura più in generale, è deposto il futuro di un Paese

Concludo come ho iniziato, citando Flaiano., quando commentava l’inchiesta del 1965 della rivista «Sipario» sul perché gli scrittori italiani non si impegnino nel teatro:

«Tutto è sapere che cosa pensa, che cosa vuole oggi la nostra società. Se non vuole nient’altro se non ciò che già possiede, un certo benessere, una certa libertà, una certa paura, che bisogno può avere di un teatro? Che cosa deve raccontarsi, che non possa farlo con l’italiano scritto, medio, dei suoi romanzi, coi suoi elzeviri, con le sue inchieste? Il teatro non è soltanto rappresentazione della realtà, ma anche trasfigurazione della realtà, è protesta, un modo di essere presenti, un modo di spiegarsi il proprio tempo, o alla peggio di negarlo».[5]


[1] E. Flaiano, Lo spettatore addormentato, Bompiani,1996, p. 153

[2] C. Fontana (a cura di), P. Grassi. Una biografia tra teatro, cultura e socità, Skira, mi, 2011, p.51

[3] La Lettera si può leggere, non integralmente, in vari testi di organizzazione teatrale e interamente nell’Archivio storico del Piccolo Teatro  e qui: https://masterventiculturali.wordpress.com/2017/05/11/lettera-programmatica-per-il-piccolo-teatro-70-anni-di-teatro-dellarte-per-tutti/

[4] https://amsacta.unibo.it/id/eprint/5812/

[5] E. Flaiano, Un personaggio in cerca del cappello, «L’Europeo», 11 luglio 1965, ora in Lo spetattore addormentato, cit., p.229.

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